JABBERWOCKY REVIEWS – La donna che morì dal ridere (2003)

11 Gennaio, 2016

I videogiocatori più smaliziati (quelli che chiudevano il maggiordomo di Lara Croft nella ghiacciaia, per intenderci, o che in Age of Mythology rinfoltivano le proprie falangi greche con gli orsi laser) sanno che una degli approcci più gustosi ad un nuovo titolo videoludico è la ricerca del bug grottesco o del glitch inaspettato, quello che aggiunge al divertimento lineare del gioco il brivido inquietante del caos. Piccola nota nostalgica: prima di Youtube e dei gameplay, non c’era modo di provare l’effettiva esistenza di un bug, e questo permetteva la circolazione incontrollata di leggende metropolitane abnormi, in cui fantomatici cugini fondavano fantomatiche palestre dopo aver battuta la Lega Pokémon con Magikarp al livello 100.


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Più o meno lo stesso principio è seguito dal neuroscienziato indiano Vilayanur S. Ramachandran e dalla reporter americana Sandra Blakeslee nella stesura del libro “La donna che morì dal ridere” (traduzione di Laura Serra, Saggi Mondadori, pp. 362, € 17,56), dove però invece dell’ultimo Assassin’s Creed il software passato al setaccio è il cervello umano, macchina perfettissima piena di imperfezioni, di bug, di errori, che Ramachandran discute con piglio sorprendentemente entusiasta per uno che si occupa di neuroscienze da una vita. Conosciamo allora il caso di Ellen, convinta che la metà destra di se stessa (e del mondo) non esista, o di Nancy, incapace di ammettere la paralisi del suo braccio sinistro (“è il braccio di un cadavere che avete messo lì per scherzo” risponde a chi gli fa notare l’arto inerte a lato del suo letto).


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Ma La donna che morì dal ridere è molto più di un carrozzone di casi clinici mirabolanti, perché la ricerca di un linguaggio accessibile che illustri gli arcana delle neuroscienze offre a Ramachandran lo spunto per sconfinare nel campo dell’esistenzialismo, riproponendo in chiave neurobiologica gli interrogativi che assillano la filosofia sin dalla sua nascita. Cos’è che provano gli epilettici del lobo temporale quando sperimentano l’esistenza di Dio? Quanto è concreto il nostro contatto con la realtà, se l’errore di una sinapsi può farci vedere un suono e sentire un colore? E quale senso ha la nostra esistenza in una concezione dove ogni idea, emozione, paura e aspirazione può essere ricondotta a scariche elettriche in un circuito di neuroni.

Il mondo non perirà per mancanza di meraviglie, ma per mancanza di meraviglia”, è la frase del biologo inglese John B. S. Haldane che l’autore premette al libro. E se non avete più l’età per credere alla palestra Pokémon fondata da vostro cugino, questo libro potrebbe restituirvi integra la stessa meraviglia.

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