Leon Russell.

26 Novembre, 2014
Lthe-union01’altro giorno vado da Feltrinelli per comprare alcuni dischi e mentre cerco quanto poi acquisto mi ritorna alla mente un cd che avevo intenzione di prendere ed ascoltare per bene da parecchio: Leon Russell – Leon Russell (non è un gioco di parole, è solo che il titolo porta lo stesso nome dell’autore), del 1970.

Bene, cerco in vano tra gli scaffali e dunque mi rivolgo alla commessa: Scusi, ci sono per caso dischi di Leon Russell?

Mi guarda come avessi pronunciato un’ astrusa formula chimica, poi abbassa gli occhi sulla tastiera e digita il nome.

“Russell” con due S e due L, preciso io.

Così, mi elenca alcuni titoli – The Union, con Elton John ed un altro, anch’esso relativamente recente, con l’icona country Willie Nelson.
“No guardi, starei cercando il disco omonimo, si chiama proprio Leon Russell, del ‘70”
“Oh, eccolo”  fa lei scorrendo altri titoli “mmm… no, mi spiace, me lo porta fuori catalogo”
Rosso di rabbia, pago quanto preso e mi allontano mormorando bestemmie e male parole.
Ma come diavolo è possibile che un tale capolavoro sia fuori catalogo???
Non ha speranze questo paese, non può mai salvarsi dalla deriva di mediocrità cosmica che l’ha investito e trascinato a fondo negli ultimi 20/30 anni!
Vedere tutti i presunti grandi artisti usciti dai talent show esposti in bella vista ed a prezzo pieno (20eurI !!! DICO 20!!!) e Leon Russell è fuori catalogo!
Trovo che anche questi piccoli episodi siano fortemente rivelatori dell’ indiscussa crisi culturale (e musicale) del bel paese.Non ha speranze dicevo, o più semplicemente, non ne merita proprio!
PortraitEd alt, che già mi pare di sentirvi: “ma guarda questo che lagna, che polemica sterile. Con youtube, gli Smartphone, internet, I-tunes e tutto il resto, si lamenta perché non trova un cd!”
E si che mi lamento, perché sono un inguaribile romantico e non mi rassegno: per me, la politica si fa nelle sedi di partito, la cultura la si consegue nelle accademie e nelle università e la musica, per quanto strano vi possa sembrare, si riproduce con i cd in uno stereo (o meglio ancora, quando è possibile, con il vinile).
Ok, mi si perdoni lo sfogo e passiamo al disco.
Era il 1970 e tra i musicisti ed i ragazzi che li ascoltavano era ancora diffusa l’opinione che la musica, lungi dall’essere mero intrattenimento, avesse il potere di cambiare le loro vite ed il mondo, definitivamente ed in meglio.
Leon Russell, cantante, pianista, chitarrista e compositore americano, riunì il fior fiore della scena rock contemporanea e iniziò a lavorare al suo terzo album solista.
Giusto due parole sul nostro: all’epoca noto principalmente come session man, s’era completamente scaltrito suonando in precedenza con giganti del rock’n’roll come Jerry Lee Lewis; ai tempi, prima che la sua carriera solista spiccasse il volo, prestava il suo piano e la sua voce (talvolta anche le sue composizioni) a gente come Joe Cocker, Eric Clapton, Furry Lewis, Gram Parsons, Geroge Harrison e molti altri. La sua voce bluesy, malinconica e romantica o rude ed un po’ sfacciata a seconda delle circostanze, ben si amalgama con la sua musica fatta di splendide ballads e di fulminee intuizioni che mescolano il rock classico al blues, al boogie ed a melodie squisitamente pop seppur sempre ben ancorate alla tradizionale musica americana. Il suo stile, tanto per intenderci, ricorda a volte i The Band, più spesso Elton John (non parlo del comunque valido Elton John mainstream che bene o male conoscete tutti, ma mi riferisco soprattutto a quello dell’insuperato capolavoro Tumbleweed Connection – che uscirà proprio qualche mese dopo l’album di Russell – una pietra miliare della storia del rock, così americano nel mood e negli arrangiamenti da far credere che il pianista inglese fosse nato da qualche parte in South Carolina piuttosto che in terra d’Albione).
Il cast stellare riunito da Russell per quello che oggi viene considerato il suo disco migliore annoverava: Mick Jagger e Joe Cocker ai cori (e forse il primo anche all’armonica), Jim Horn al sassofono, George Harrison e Ringo Star, Eric Clapton, Merry Claiton, Steve Winwood alle tastiere, B.J. Wilson, Charlie Watts e Bill Wyman e altri storici session men come Buddy Harman, Jim Gordon e Delaney Bramlett. Ciliegina sulla torta, Glyn Johns come tecnico del suono.
Immaginatela oggi una tale reunion! Ma non ve ne sorprendete: eccetto qualcuno di quelli citati, molti erano agli albori di quelle che saranno poi carriere leggendarie. Erano d’altronde i tempi in cui tali mega-collaborazioni erano frequenti e piuttosto naturali. Si iniziava con un cocktail party e si finiva col fare un disco. I ragazzi certo non sapevano di star scrivendo pagine indelebili della musica rock. Ci si dava una mano l’un l’altro, ecco quanto.
E dunque, edito dalla Shelter Records di proprietà dello stesso Russell, l’album vede la luce il 24 aprile del ’70. Si tratta di un appassionante viaggio nella storia della musica a stelle e strisce: una commistione di blues, gospel, rock’n’roll, boogie, melodie jazz o dal profumo soul, con la voce ed il piano di Russell a legare il tutto. Grazie alla sua grinta ed alla sua originalità ancora oggi, a 43 anni dalla pubblicazione, suona, per musiche e temi trattati, incredibilmente attuale.
A song for you è la prima traccia. Romantica ballad al piano dal sapore jazz, ricorda con nostalgia ma senza rimpianto i momenti d’un amore perduto. “Mi insegnavi i segreti preziosi, del vero amore con niente da possedere. Sei andata via quando mi stavo nascondendo, ma è stato meglio. Se le mie parole non giungono completamente insieme, per piacere, ascolta la melodia, perché il mio amore è lì che si nasconde”. Di certo la sua composizione meglio conosciuta, è stata negli anni coverizzata da schiere di artisti famosi e meno; tra i più illustri ricordiamo Ray Charles e Aretha Franklin.
Forse il momento migliore di tutto l’album.
Dixie Lullabye è uno scanzonato rhythm’n’blues sorretto dal piano boogie di Russell; alleggerisce un po’ l’atmosfera dopo un esordio così emotivamente coinvolgente e fa bella coppia col brano che segue, I put spell on you, gospel dalle tinte rockeggianti che nei cori esalta la voce nera della Claiton.
In Shootout on the plantation ci godiamo il cameo di Ringo alla batteria, l’ex Beatle, mentre nella successiva Hummingbird sarà la volta della chitarra di George Harrison (si vocifera che sia stata composta a quattro mani con lui, ma non ho trovato fonti che lo confermino).
tumblr_lvyeadYMgH1r2bqk0o1_500Delta Lady, altro valido brano, è un rock classico. La canzone, anch’essa tra le più famose del repertorio di Russell, era già edita nell’album Joe Cocker! (con Russell al piano). La versione di Cocker è probabilmente quella più popolare.
Give peace a chance porta lo stesso nome di quella di Lennon, ma in realtà è un’altra canzone. Come quella di John sembra essere quasi una jam sassion più che un brano compiuto vero e proprio; sul ritmo frenetico di un gospel laico che ha poco o nulla da invidiare alle esecuzioni più sfrenate dei Soul Stirrers, Russell e soci invocano ripetutamente una chance per la pace.
L’imponente blues di Hurtsome body, con la batteria del Beach Boy D.J. Wilson, conferma quanto di buono fin’ora detto del disco.
La scoppiettante doppietta Pisces apple lady (rock che anticipa, ispirandone le tendenze – come detto precedentemente – il suond che renderà celebre Elton John) e Roll way the stone chiudono un lavoro che avrebbe meritato maggior fortuna di pubblico e critica, non soltanto in Italia.
Nel ‘93 l’album è stato ristampato in cd (ahimè, non reperibile dalle nostre parti) con l’aggiunta di sei outtakes.
Qualche cenno sulle più meritevoli:
A firma Jagger-Richards, Get a line on you non è altro che il classico degli Stones presente su Ex. on main street sotto il nome di Shine a Light. E’ una struggente ballad che molti vogliono dedicata all’agnello sacrificale del rock, Brian Jones. Questa versione, piuttosto diversa da quella definitiva poi data alle stampe dal gruppo britannico, fu registrata agli Olympic Studios di Londra e vede Russell al piano, Jagger alla voce e tutti gli altri Stones (Richards a parte) ai loro strumenti. Rimasta a prendere polvere chissà dove per oltre trent’anni, ha visto finalmente la luce con la ristampa del disco.
Jammin’ with Eric, in tutta probabilità registrata a Londra negli stessi studi e nello stesso periodo della summenzionata, dice già tutto col suo titolo: un blues improvvisato tra Clapton e Russell, col chitarrista in primo piano che incalza di continuo il povero Russell senza lasciargli neanche una manciata di secondi per un proprio assolo. Per tutti i devoti appassionati di Eric manolenta Clapton.
Poiché erano altro tempi, accadeva che una manciata di musicisti dediti al consumo di droghe ed all’edonismo più sfrenato, mentre raccontavano di amori finiti e di infinite ubriacate, dicevano la loro, in modo sferzante (e quasi pedagogico per i giovani che li ascoltavano), anche su scottanti temi d’attualità.
Ecco così New Sweet home Chicago, col titolo che strizza l’occhio all’imperituro classico di Robert Johnson, ma il cui blues stavolta fa sottofondo ad una satira mordace sulle maniere poco ortodosse della polizia durante la convention dei Democratici del ’68, svoltasi per l’appunto a Chicago, e teatro di violenti scontri da manifestanti e forze dell’ordine.
E sempre in materia politica, Russell va a rispolverare un pezzo del padre spirituale dei songwriters degli anni sessanta (e non solo) – Bob Dylan – Masters of wars del 1963 ma quanto mai attuale ai tempi, in piena era Nixon, perché se mezzo milione di giovani s’erano riuniti per sguazzare nel fango di Woodstock appena un anno prima, un altro mezzo milione si trovava a sguazzare in quello delle paludi del sud est asiatico, e lì non era proprio esattamente pace, amore e Richie Havens che canta Freedom!
Venite padroni della guerra – voi che costruite i grossi cannoni – voi che costruite gli aeroplani di morte – voi che costruite tutte le bombe – voi che vi nascondete dietro i muri – voi che vi nascondete dietro le scrivanie – voglio solo che sappiate – che posso vedere attraverso le vostre maschere
Ma, come si diceva prima, erano gli anni ’70. Già, roba d’altri tempi…
di Salvatore Di Stasio


SECONDO NOI TI POTREBBE INTERESSARE ANCHE: