Across The MusicVerse #1 // WIRE

18 Gennaio, 2016

“La musica è la voce che ci dice che la razza umana è più grande di quanto lei stessa sappia”.


I Wire (inizialmente Overload) nascono a metà anni settanta come progetto artistico polifunzionale nell’ambiente del Watford Art College. Colin Newman, studente di disegno, incontra il tecnico audiovisivo Bruce Gilbert (chitarrista) e Graham Lewis (bassista), stilista e studente di moda. Sono gli anni dell’inno nichilista “No Future”, delle bande giovanili e dei paradossi come l’affaire Sex Pistols – Malcolm McLaren, che a detta di Graham Lewis è l’emblema della negazione degli ideali di “lotta al sistema” propagandati dallo stesso movimento punk inglese. I londinesi guardano alla scena punk statunitense con l’intento di sovvertire gli schemi già collaudati e rigidi del genere, la soluzione è virare verso un linguaggio aperto che includa le arti visive e la performance art. Il nuovo paradigma dei Wire si fonda su questa concezione: la musica è contaminata dalla tecnologia, dalla politica, da irrazionali mutazioni di stile e non bisogna limitarsi, non serve più imitare.


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Prende vita in questo contesto un’identità musicale che sarà poi designata dalla critica come post-punk/new wave (altre formazioni contribuiscono all’esplosione della tendenza come The Fall, Television, Devo, Talking Heads, Pere Ubu); il dadaismo sonoro dei Wire é lo strumento ideale per veicolare quelle nevrosi della società contemporanea che la letteratura e l’arte hanno rappresentato in opere spiazzanti come quelle di Joyce, Beckett e Kafka. I Wire non sono stati dei punk ortodossi e nemmeno degli intellettuali ma hanno catturato l’essenza del cambiamento, sintetizzando al meglio le loro idee nel debutto “Pink Flag” (1977). Il disco in questione dura 33 minuti e contiene 21 canzoni, spazia dal garage tossico nella scia dei Velvet Underground (“Strange” e “Lowdown”) ai riff scuola sixties di Troggs e Kinks (“Three girl rhumba”), non c’è un solo brano che si possa definire un riempitivo, tutto è conciso e arriva al cuore dell’ascoltatore.



Il punk dei Wire è destrutturato e ha perso la frenesia scomposta dell’inno ribelle, ma l’impatto che ha avuto su artisti come Henry Rollins e Ian MacKaye (e più in generale) sull’hardcore punk americano certifica e accredita la loro appartenenza al movimento. Ribattezzati dalla critica inglese Punk Floyd perché il debutto fu licenziato sotto etichetta Emi/Harvest, la stessa dei Pink Floyd, gli inglesi riescono a superare le barriere che il rock si era autoimposto.
Le sonorità dei Wire hanno origine dagli esperimenti con i nastri e gli strumenti analogici per composizioni elettroniche realizzati a metà anni ’70 da Colin Newman all’Accademia d’arte di Watford. Il fragore delle chitarre è compresso e saturato armonicamente nel loop basso-batteria. “Pink Flag” travolge l’ascoltatore in un imprevedibile flusso di variazioni timbriche; i Wire danno un colore peculiare alle distorsioni, e tutto è reso “fluorescente” e cangiante dal senso della melodia non comune dei principali compositori (Newman/Lewis).


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I pezzi sono “catchy”, ma non riescono a trasformarsi in inni alternativi. Sembra quasi che reprimano la rabbia in un impeto di scatti nervosi, dove la brevità formale non permette la deflagrazione del sentimento. Uno degli amici di Colin Newman, ai tempi, è un certo Brian Eno (ex Roxy Music) che produrrà la trilogia berlinese di David Bowie (Low, Heroes, Lodger), raggiungendo l’apice del successo e dell’innovazione tra sperimentalismi elettronici, feedback e melodia pop.
I Wire hanno dimostrato che la musica può stupire sempre, anche nei limiti “angusti” della forma canzone; gruppi come Blur, Pixies e Radiohead hanno nella loro genetica lo stesso approccio, è evidente nell’uso creativo che fanno della distorsione, delle voci e degli effetti dissonanti. Michael Stipe ha indicato nell’esordio “Pink Flag” uno dei suoi dischi preferiti. Oltre al già citato disco della bandiera rosa, a fine ’70 , i Wire pubblicano una discreta quantità di materiale: tre album, svariati singoli ed Ep. La pubblicazione di “Pink Flag” ci ha liberato, abbiamo realizzato qualcosa che funziona e ora passeremo ad altro, così in un’intervista del ’79 Colin Newman descriveva la direzione intrapresa dalla band, mirata a un rinnovamento costante.


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