Intervallo (reprise): Tupelo, Mississippi.

12 Dicembre, 2014

Se vieni da Tupelo, Mississippi, ti identificano per due cose: la nascita di Elvis, the King, nel 1935; e il tornado Tupelo, esattamente un anno dopo, coi suoi 436 morti. Entrambe le vicende sono legate a doppio filo alla musica: Elvis è Elvis e c’è poco altro da aggiungere. Il tornado Tupelo, invece, ha avuto cantori mica da ridere nel corso degli anni: da John Lee Hooker e da Nick Cave and The bad seeds, tanto per intenderci. Quando la geografia ti ricama il destino sulla pelle.

Se vieni da Tupelo, a quanto pare dentro di porti la musica. Accanto ad essa, qualcosa d’oscuro, un po’ morboso: un’ombra accennata, un crepuscolo, come un refolo di melancolia. Anche se fuggi via, che so, in California, non importa. C’è sempre un’ombra che incombe, una minaccia latente: solo che questa, di minaccia, non la si può scansare: esplode dall’interno e ti manda in frantumi la vita. È qualcosa che i delicati figli del Sud – di ogni Sud – imparano presto dalla natura: non importa quanto caldo e accogliente sia un posto, quanta struggente bellezza possa racchiudere una persona, quanta grazia si possa concentrare in un momento. Arriva il tempo in cui le ombre si addensano, i venti di Tupelo tornano a soffiare, e tutto va in un milione di piccoli pezzi, silenziosamente, senza musica. Poi, se si è sopravvissuti, tocca ripartire. Alzarsi, per prima cosa, se ci si riesce ancora; quindi, ricominciare da ciò che è restato. Ritrovare un senso ai frammenti che riposano sul terreno. Tornare a far cantare la propria vita.

Se sei di Tupelo, e ti chiami John Murry, sei a buon punto. Certo, l’età che vivi è graceless. È perduta l’epicità dell’America del Boss, in queste 9 gemme prodotte da Tom Mooney (American Music Club) nel 2012; mancano gli spazi aperti e la corsa sulle highways; le impennate del sax, le fughe della tastiera, le scariche di tuono della batteria. Resta un meccanismo di songwrintig perfetto, una capacità di affrescare un’epoca ristretta e anonima; vissuta in spazi enormi eppur angusti, schiacciati da un dolore lancinante, nella polvere che si solleva, cadendo. È andato il surrealismo di Tom Waits; il sorriso scanzonato anche nella tristezza, il gioco a nascondersi dietro la maschera della poesia, con la complicità della notte. Tutto è prosaico, qui; ferocemente realista: la tristezza è tristezza; il dolore è dolore, la sconfitta irrimediabile cicatrice. Si viene avvolti da una luce strana, crepuscolare: una luce ambigua, che allunga le figure e conferisce loro toni e colori inquietanti, da incubo. Viene meno la spinta erotica dei Morphine: resta il drumming ossessivo di un rito arcaico, un basso che vibra e frusta e rimbalza, come una falena chiusa in barattolo ma inesorabilmente attratta dalla luce.

Soprattutto ci sono storie personali e racconti e vicende dolorose, c’è il fallimento di Faulkner e l’ambiguità morale di McCarthy; e voci campionate e macchie di colore elettroniche impastate con i brividi della “scimmia” e con un suono oscuro che ricorda le migliori band londinesi degli anni ’80.

Tutta roba che capita di comporre se vieni da Tupelo, Mississippi.



 


 

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