YOU TALKIN’ TO ME? WHO THE FUCK DO YOU THINK YOU’RE TALKING TO? // Vanbasten

9 Marzo, 2016

L’otto marzo, dopo aver fatto gli auguri alle donne, ho intervistato Carlo Alberto dei VANBASTEN, nuova potente band romana dalle influenze garage/ new wave e liriche brucianti rigorosamente in italiano.
Arrangiamenti devastanti come lo sparo di una P38, i VANBASTEN hanno da poco pubblicato il loro omonimo EP e il 24 marzo vi aspettano obbligatoriamente al Quirinetta per suonarvelo LIVE.


VANBASTEN. Chi siete?


Siamo tre bastardi. Non siamo nient’altro che quello. Non apparteniamo a nessun retaggio musicale, è come se noi tre fossimo stati da soli a mangiare dalla stessa ciotola per anni.
Lontani da tutto e da tutti. Non abbiamo avuto gruppi precedenti e non abbiamo mai un amico d’infanzia a cui far ascoltare le nostre canzoni perché a loro non frega un cazzo della musica.
Noi veniamo dal buco nero dell’anti-musica, dove crescono i disperati e i tossici, i frustrati e gli alcolizzati; dovremmo dire che al liceo ascoltavamo la prima ondata indie? Dovremmo dire andavamo ai concerti punk a 16 anni? Oppure che entravamo al Giulio Cesare con la chitarra in spalla? No, assolutamente.
Noi giravamo per Roma senza fame di niente, senza voglia di fare niente. Non eravamo affamati di cultura, né ci chiudevamo pomeriggi su un assolo.
Noi eravamo terribilmente accecati dalla rabbia, noi eravamo punk e nemmeno lo sapevamo.
Noi giocavamo a pallone, poi dopo un po’ c’è stata anche la musica, ma noi siamo quelli della strada non quelli delle schitarrate in compagnia: sia chiaro.



VANBASTEN. Quanto osa questo nome?


Osa il giusto. Osa quanto deve osare un simbolo degli anni ’90. Per noi il calcio era tutto, era l’unico modo per farsi rispettare da tutti. VANBASTEN (perché così si scrive, urlato) è un simbolo, un portafortuna di quel periodo. Perché quando ripensi alle bancarelle della domenica a cui arrivavi solo in punta di piedi ripensi a quel periodo felice; quello in cui indossando una maglia da calcio col numero giusto dietro ti sentivi i superpoteri addosso. Ti sentivi protetto. Crescendo cambiano tante cose, ma i superpoteri tornano sempre utili, per cui: proteggici VANBASTEN 9.


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Come siete nati? E come vi siete avvicinati alla grande famiglia di Noia Dischi?


Siamo nati grazie all’urgenza di esprimerci. Come già detto prima, noi non avevamo alcuna nozione musicale.
Senza l’ardente voglia di esprimerci non ce l’avremmo mai fatta. Fu quella a permetterci di iniziare a fare concerti quasi senza saper suonare; e poi parliamo di punk? Fu per un mio progetto (chi scrive è Carlo Alberto) che coinvolsi Massi, Davide ed un quarto elemento che ora ha preso un’altra strada. Io riuscivo a malapena a suonare gli accordi aperti ed il resto della banda viaggiava più o meno sullo stesso livello; non eravamo 14enni a cui si perdona tutto, noi avevamo già più di 20 anni. Tutto ciò ha portato ai VANBASTEN, che a loro volta hanno creato curiosità verso i ragazzi di Noia Dischi e il resto è venuto da sé.



A Roma, negli ultimi tempi, c’è molto fermento. Si avverte qualcosa di diverso,
di romanticamente travolgente, il profilarsi di una nuova scena o movimento,
una magia in cui tutto o quasi pare possibile.
Voi cosa ne pensate e come percepite quest’atmosfera?


Noi veniamo dalle strade; queste elucubrazioni restano dolci ai più borghesi. L’unica vera risposta è This Scene Is Not Dead.


Com’è nato il vostro EP? Raccontateci una cosa bella avvenuta durante le fasi di realizzazione


L’EP nasce dall’esigenza di imporci come musicisti oltre che come performers punk. Nasce perché la musica è importante, la cultura che c’è dietro lo è soprattutto. Volevamo un disco che suonasse un po’ retrò, che riprendesse qualcosa dal Garage francese degli anni 60’/70′, qualcosa dalla NewWave degli 80′, dal Rock’N’Roll anni 70′ e dal Surf di Dick Dale o dei The Shadows, ma allo stesso tempo avrebbe dovuto rispettare i giusti cliché Pulp e mantenere uno spirito italiano inalterato dalle influenze circostanti. Il disco lo siamo poi andati a registrare a Firenze da Leonardo Magnolfi, uno che dietro il mixer è un numero 10.



Il vostro lavoro è denso di riferimenti
(Ragazzi di vita e quindi inevitabilmente Pasolini, Verlaine, Lars Von Trier, Tarantino, Morrissey),
amalgamati in chiave pulp e new wave/garage.
A questo proposito, chi scrive i testi di voi tre e come nasce e si sviluppa la scrittura?


I testi li scrivo io (Carlo Alberto), la mia idea era quella di cominciare a raccontare la vita da dove inizia a farsi interessante, dall’adolescenza. Mi sono rifatto alla letteratura Cannibale per gli spunti narrativi e alle metriche classiche della canzone italiana d’autore anni 60′ per la scrittura vera e propria. I personaggi saltano sulle note veloci e i cliché si rincorrono cedendosi quasi mai all’autoreferenzialismo.
È un disco scritto per le strade di Roma, di Roma Nord, del Quartiere Africano e di Talenti; è stato un passatempo come lo sono le nuove canzoni. Posso passare una giornata su una sola parola oppure scrivere due strofe in 3 minuti, ma alla fine ciò che conta è che io mi diverta e che ai miei compagni piaccia.
L’importante è che mi svuoti delle cose che altrimenti non saprei come lasciare andare.


Quali sono gli ascolti che vi hanno influenzato maggiormente?


New Order, Joy Division, The Smiths, Jacques Dutronc, Francoise Hardy, Dick Dale, The Shadows, David Bowie, ma anche Baustelle, 883, Rino Gaetano, Adriano Camerini, Lucio Dalla, Franco Battiato ed ovviamente John, Paul, George and Ringo.


 


 La notte che sognate?


Di essere in salvo.


 Progetti per il futuro


Suonare dal vivo, fare un secondo disco e fare una canzone di Natale.


 E stasera che fate?


Stasera Davide andrà a prendersi una birra, Massi starà con la sua ragazza chissà dove e Carlo guarderà la Roma asfaltare il Real Madrid al Santiago Bernabeu.
In pratica; continueremo a sognare.


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